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Giovedì 26 luglio 2012

Contenuti

Prevenire altre malattie per ritardare la necessità di iniziare il trattamento HIV

Donne che hanno ricevuto una zanzariera impregnata di insetticida. © Immagine: Vestergaard Frandsen/Georgina Goodwin

Prevenendo malaria e dissenteria è possibile rimandare notevolmente la necessità di iniziare il trattamento antiretrovirale, come dimostra uno studio condotto in Kenya.

La malaria e altre malattie idrotrasmesse che possono causare la dissenteria sono considerati fattori molto incisivi nella progressione della malattia da HIV.

L’obiettivo dei ricercatori era verificare se la distribuzione di zanzariere impregnate di insetticida e di filtri per l’acqua, che prevengono malaria e dissenteria, permettesse di rimandare la necessità di iniziare la terapia anti-HIV.

Per lo studio sono state arruolate circa 600 persone sieropositive non ancora idonee per il trattamento (vale a dire, con una conta dei CD4 superiore a 350 e nessun grave sintomo).

A circa la metà dei partecipanti sono state distribuite le zanzariere con insetticida e i filtri per l’acqua.

L’uso di questi dispositivi è stato associato a una diminuzione del 27% della necessità di iniziare il trattamento HIV.

La strategia ha inoltre un ottimo rapporto costi-benefici. Come dimostrato da un modello matematico, se fosse estesa a tutta l’Africa subsahariana si potrebbero risparmiare 400 milioni di dollari all’anno in costi di trattamento.

Rivelare la sieropositività agli altri

Foto dell’intervento di Benjamin Bearnot.

Dai risultati di uno studio condotto in Sudafrica emerge che la stragrande maggioranza delle persone sieropositive informa la famiglia del proprio stato, ma quelli che lo dicono al partner sessuale sono molti meno.

Allo studio hanno partecipato circa 700 persone, la maggior parte delle quali donne (il 73%). Il 60% erano in regime di trattamento antiretrovirale.

Le percentuali di coloro che ne avevano parlato con i familiari variavano a seconda del sesso e della presenza di trattamento.

Circa il 70% delle donne che non assumeva il trattamento aveva informato un familiare, così come il 93% di quelle che invece erano in trattamento. Le percentuali si abbassano per gli uomini (il 54% di quelli non in trattamento e il 77% di quelli in trattamento).

È risultato invece i partner sessuali venivano informati molto più di rado. Ha dichiarato di averlo fatto circa un quarto delle donne, contro il 45% degli uomini. In questo caso, l’essere o meno in trattamento non ha determinato differenze sostanziali nelle percentuali.

Sembrano incontrare meno difficoltà a rivelare la propria sieropositività i soggetti con diagnosi più recenti.

Il test HIV da fare a casa

All’inizio del mese l’FDA, l’ente statunitense per la regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato il primo kit per il test HIV fai-da-te.

Si chiama OraQuick In-Home HIV Test, e sarà venduto in farmacia come i normali prodotti da banco, senza bisogno di supervisione medica. E agli Stati Uniti potrebbero presto seguire altri paesi. Anche se questo via libera è stato accolto favorevolmente da molti, restano aperti molti interrogativi sui modi in cui potrebbe essere utilizzato e sul suo impatto nella pratica.

Uno di questi interrogativi è se verrà usato per controllare i partner sessuali. A questo riguardo, molto interesse ha suscitato uno studio i cui risultati sono stati presentati martedì ad AIDS 2012.

Allo studio hanno partecipato 27 MSM sieronegativi che avevano avuto più di una relazione sessuale. Ai partner è stato chiesto di effettuare il test, e su 124 in totale, 101 hanno accettato. Sono risultati positivi nove di loro, di cui cinque non sapevano di esserlo.

Non sono stati riportati grossi problemi nell’uso del test, e gli autori dello studio hanno concluso che è ben accetto tra gli MSM ad alto rischio.

Durante la sessione sono state poste domande anche su altri aspetti dell’utilizzo di questo test, come il problema del periodo-finestra o le conseguenze sulle altre pratiche finora raccomandate per il safer-sex (ad esempio l’uso del preservativo), o ancora come si inserirebbe nelle dinamiche spesso impari tra uomo e donna.

L’aspettativa di vita in Sudafrica

L’aspettativa di vita delle persone sieropositive è cresciuta notevolmente dopo l’avvento del trattamento antiretrovirale efficace, ma con impatto variabile nelle diverse parti del mondo.

Nelle aree rurali della provincia del Kwazulu-Natal, in Sudafrica, l’introduzione della terapia antiretrovirale ha determinato un aumento più che significativo della vita media.

Si tratta di una regione dove la prevalenza dell’HIV è alta (28%).

Gli studiosi hanno investigato l’aspettativa di vita della popolazione in un arco di tempo compreso tra il 2000 e il 2011. Tra il 2000 e il 2003, il dato era calato da 59 a 52 anni.

Nel 2003 è stato avviato un programma di terapia antiretrovirale e, arrivati al 2011, la vita media era di nuovo aumentata a 60 anni.

Il trattamento come prevenzione: la carica virale a livello di popolazione

Test HIV in Uganda. Immagine di AIDS Healthcare Foundation.

L’approccio “test-and-treat” nell’Uganda rurale sta dando ottimi risultati in termini di ‘carica virale a livello di popolazione’ (‘population viral load’), un dato che incrocia le misurazioni della carica virale con altri fattori correlati all’interno dell’intera popolazione a scopi di monitoraggio.

Negli sforzi per controllare l’epidemia, viene data sempre più importanza al ruolo della diagnosi dell’HIV con il test. Questo riveste un’importanza centrale nell’attuazione del trattamento HIV come prevenzione.

Nel maggio 2011 sono state effettuate delle campagne per testare la popolazione di alcune aree rurali dell’Uganda, ripetute nel maggio 2012.

Nel complesso, sono stati monitorati i tre quarti circa della popolazione adulta residente nell’area. Nel 2011 sono risultati positivi circa l’8% dei partecipanti, e nel 2012 circa il 9%.

Parallelamente, si è assistito a un notevole aumento della percentuale di persone sieropositive con carica virale non rilevabile (dal 37 al 55%).

Inoltre, si è registrato un sensibile calo delle persone con carica virale molto elevata, ossia superiore alle 100.000 copie (dal 13 al 3%).

I risultati dello studio dimostrano che intensificando i programmi per il test e allargando l’accesso al trattamento si può ottenere una drastica e rapida diminuzione delle persone con HIV a livelli infettivi.

Gli ostacoli all’approccio “test-and-treat”

Foto di Jon Rawlinson via Flickr

Uno studio proveniente dallo Zambia ha offerto un quadro degli ostacoli che possono incontrare le strategie di “test-and-treat”.

Vi hanno partecipato 2443 pazienti arruolati presso centri per la cura dell’HIV e organizzazioni di comunità.

I motivi addotti dai partecipanti che non volevano fare il test andavano dalla paura dell’ostracismo e dello stigma ai timori sulla terapia antiretrovirale, soprattutto per gli effetti collaterali e le difficoltà dell’aderenza.

Ma i partecipanti non disposti a fare la terapia hanno citato anche altre ragioni, dicendo per esempio:

  • che si sentivano bene;
  • che riponevano fiducia nella religione;
  • che preferivano affidarsi alle terapie tradizionali;
  • che non nutrivano fiducia nell’efficacia della terapia;
  • che non avevano qualcuno che li aiutava;
  • che avevano problemi finanziari;
  • che il loro accesso alle cure era limitato.

L’epidemia HIV tra gli MSM di etnia nera

Greg Millett dei Centers of Disease Prevention Control. © IAS/Deborah W. Campos - Commercialimage.net

Tra i ricercatori si sta facendo strada la convinzione che l’elevata incidenza dell’HIV tra gli MSM di etnia nera non possa essere semplicemente attribuita a fattori come comportamenti sessuali a rischio, elevato numero di partner e uso di sostanze stupefacenti.

Gli studi continuano a riportare tassi molto elevati di HIV tra gli MSM di etnia nera negli Stati Uniti. Per comprenderne a fondo le ragioni, i ricercatori hanno esaminato i risultati di 174 diversi studi sull’argomento.

Da questa meta-analisi è emerso che, in realtà, gli uomini di etnia nera avevano meno comportamenti a rischio, ad esempio fare sesso non protetto, rispetto ad altri gruppi etnici, e inoltre avevano un numero inferiore di partner ed erano meno inclini a fare uso di droga.

Di contro, avevano però anche livelli di istruzione inferiori e vivevano più frequentemente in condizioni di relativa indigenza.

I ricercatori hanno concluso che questi fattori socio-economici fanno sì che gli uomini neri restino più isolati all’interno delle loro comunità, dove la prevalenza dell’HIV è alta.

Un altro dato emerso dalla meta-analisi è che gli uomini sieropositivi di etnia nera accedevano meno alle cure per persone sieropositive rispetto ad altri gruppi etnici.

Profilassi pre-esposizione (PrEP)

Alcuni studi presentati alla Conferenza di Washington hanno sollevato interessanti interrogativi sul possibile impatto della profilassi pre-esposizione sul comportamento sessuale, e sulla sua accettabilità nelle popolazioni ad alto rischio di HIV.

Nell’ambito di uno studio condotto negli Stati Uniti su 500 uomini gay e, più in generale, che fanno sesso con altri uomini, una consistente parte di loro ha dichiarato che sarebbero meno inclini a fare uso di preservativo per il sesso anale se stessero assumendo la PrEP, soprattutto quelli che dicevano di aver fatto di recente sesso anale non protetto.

Anche da un’altra ricerca effettuata su un campione di coppie con un partner sieropositivo e l’altro sieronegativo è risultato che i partecipanti pensavano di utilizzare meno il preservativo se il partner assumeva la PrEP.

Studi separati hanno inoltre rilevato che gran parte degli MSM, a prescindere dal loro contesto di provenienza, erano propensi a considerare la PrEP come strumento di prevenzione.

Ridurre i comportamenti a rischio HIV combattendo l’abbandono scolastico

Geeta Rao Gupta dell’UNICEF durante il suo intervento alla Conferenza. © IAS/Ryan Rayburn - Commercialimage.net

Tra i ragazzi del Kenya occidentale sono stati sperimentati due interventi in ambito scolastico: uno, la distribuzione di divise scolastiche gratuite per contrastare l’abbandono scolastico per motivi economici; l’altro, l’erogazione nelle scuole primarie di corsi educativi in linea con il programma nazionale per la prevenzione dell’HIV/AIDS. I due interventi, se attuati in modo combinato, sembrano più efficaci nel ridurre i comportamenti sessuali a rischio di HIV che ognuno dei due singolarmente, come ha illustrato il dott. Vandana Sharma mercoledì alla Conferenza.

Le iniziative combinate hanno dimostrato di avere particolare impatto sulle ragazze, che sono a grave rischio di HIV. Le gravidanze indesiderate e le infezioni sessualmente trasmissibili sono oggi tra i più preoccupanti rischi sanitari che corrono le adolescenti dell’Africa subsahariana.

Nella stessa sessione si è parlato di un rapporto che ha valutato l’impatto dei programmi di prevenzione in ambito scolastico in 20 paesi ad alta incidenza di HIV, da cui emerge l’importanza di investire a sufficienza in programmi specificamente pensati per i giovani.

In partnership with UNICEF

Trasformare i programmi di prevenzione della trasmissione materno-fetale in programmi per l’ARV

Chewe Luo dell’UNICEF che parla alla sessione plenaria di mercoledì. © IAS/Ryan Rayburn - Commercialimage.net

L’UNICEF ha sottolineato i benefici di un nuovo modello per la prevenzione della trasmissione materno-fetale dell’HIV. Con la cosiddetta ‘Opzione B+’ dell’OMS, verrebbe abbandonato il riferimento alla soglia di CD4 utilizzata per dichiarare una madre idonea per il trattamento a vita, anziché solo durante la gravidanza e subito dopo il parto.

Il Direttore esecutivo dell’UNICEF Anthony Lake appoggia questa linea: “Naturalmente ogni donna vuole che il proprio figlio sopravviva, ma vuole vivere anche lei: chi può negarle questo diritto?”

Quanto alla fattibilità economica – tema molto sentito alla Conferenza di quest’anno – è stato sottolineato che, sebbene l’Opzione B+ sia più costosa degli altri modelli individuati dall’OMS, adottarla porterebbe comunque un risparmio in termini di ridotta trasmissione ai partner maschi, al bambino e ad altri eventuali figli in future gravidanze.

In partnership with UNICEF

Incontri con i delegati!

Allo stand di NAM nella Exhibition Hall C (stand 22) ci sono stati incontri tra lo staff e i delegati della conferenza provenienti da tutto il mondo. È stata una preziosa occasione per sapere in cosa consiste la loro attività e in che modo la svolgono, oltre che per chiedere loro come utilizzano il materiale messo a disposizione da NAM e il sito aidsmap.com.

Visita le pagine web di NAM per saperne di più sulle persone incontrate alla Conferenza.

Allo stand, lo staff di NAM presenta ai partecipanti alla Conferenza la sua attività, come per esempio la pagina e-atlas, che è stata ampliata e perfezionata nel corso dell’anno e comprende ora molte più organizzazioni in tutto il mondo. Grazie alla funzione “Risorse e social media”, le organizzazioni grandi o piccole per la lotta all’HIV di tutto il mondo possono condividere informazioni e imparare insieme ai propri colleghi. Se stai partecipando alla conferenza, visita lo stand e informati da Sylvie Beaumont, che cura e-atlas, oppure scrivile all’indirizzo e-atlas@nam.org.uk.

NAM sta presentando anche altro materiale cartaceo e online. Se sei a Washington, puoi trovarla allo stand 22 della Exhibition Hall C. Altrimenti, puoi consultare tutte le pubblicazioni di NAM al sito www.aidsmap.com/resources.

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