| | | Mercoledì 2 marzo | |
Il gap nell’aspettativa di vita 
Julia Marcus durante la sua presentazione a CROI 2016. Foto di Liz Highleyman, hivandhepatitis.com
Da uno
studio che ha raffrontato l’aspettativa di vita di persone HIV- positive e
negative tra gli assicurati di Kaiser Permanente in California emerge che
l’aspettativa di vita delle persone che vivono con l’HIV è sì aumentata, ma per
i ventenni resta di 13 anni inferiore a quella dei loro coetanei HIV-negativi.
I dati si riferiscono a circa 25.000 persone con
infezione da HIV titolari di una polizza sanitaria Kaiser Permanente, che sono
stati messi a confronto con un campione dieci volte superiore di assicurati
HIV-negativi.
Nel 1996, per un ventenne che contraeva l’HIV
l’aspettativa di vita era di soli 39 anni: nel 2011, era salita a 73. Nell’arco
degli stessi 15 anni, però, per le persone HIV-negative l’aspettativa di vita è
costantemente rimasta sugli 85 anni.
Gli autori dello studio hanno preso in considerazione
anche i dati relativi a persone HIV-positive che non presentavano fattori di
rischio di cattiva salute. Iniziando la terapia antiretrovirale con una conta
dei CD4 superiore a 500 cellule/mm3, l’aspettativa di vita aumentava
di cinque anni, che salivano a sei anni per i pazienti che non avevano una
coinfezione con epatite B o C o precedenti di abuso di droga o alcol.
A fare la differenza più grande però è risultato essere
il fumo. Chi non era mai stato fumatore, infatti, aveva un’aspettativa di vita
superiore di quasi otto anni: cinque di meno, tuttavia, rispetto a una persona
HIV-negativa.
Migliorare la treatment cascade nei paesi africani 
Gli interventi
mirati ad aumentare la percentuale di diagnosi delle infezioni da HIV, di
persone che iniziano la terapia e di quelle che rimangono in cura sono stati
uno dei temi principali della Conferenza di quest’anno.
Le unità mobili per l’offerta di test e counselling per
l’HIV si sono dimostrate un mezzo efficace per aumentare il tasso di diagnosi
negli uomini e in altri gruppi più difficili da raggiungere, ma l’aggancio alle
cure resta un tasto dolente. Uno studio randomizzato condotto in Sudafrica ha
riscontrato un aumento, seppur
modesto, dei tassi di accesso alle cure quando ai pazienti veniva offerta la
possibilità di effettuare un test per la conta dei CD4 al point of care e di
ricevere counselling per superare gli ostacoli, anche personali, che
impediscono loro di richiedere cure per l’HIV. Ciò nonostante, soltanto il 50%
di coloro che avrebbe avuto immediatamente bisogno di ricevere il trattamento
entrava in cura nel giro di sei mesi dalla diagnosi, un dato che sottolinea la
necessità di lavorare ancora sulla fase di aggancio alle cure. L’offerta del
test dei CD4 al point of care da sola, invece, non ha mostrato di migliorare i
tassi di accesso alle cure.
Il
programma Opzione B+ in Malawi ha drasticamente migliorato la treatment cascade del gruppo delle donne
HIV-positive in gravidanza in questo paese: in soli quattro
anni, la percentuale delle infezioni da HIV diagnosticate in questo gruppo è
salita dal 49 all’80% di quelle stimate, e quella delle pazienti che hanno
ottenuto la soppressione virologica è addirittura balzata dal 2 al 49%. Il
programma è stato attuato tenendo conto dei limiti del sistema sanitario
locale: è stato raddoppiato il numero di centri in cui veniva offerta la
terapia antiretrovirale (ART), in modo che quasi tutti potessero agevolmente
raggiungerne uno anche a piedi; inoltre per consentire anche a operatori
sanitari con una formazione più limitata di erogare il trattamento, sono state
semplificate le linee guida, potenziando invece la supervisione clinica.
Resta ugualmente difficoltoso mantenere in cura le
pazienti una volta finita la gravidanza. Le donne
HIV-positive che non hanno rivelato al partner il proprio stato sierologico, che non
conoscono quello del partner o che non hanno potuto essere adeguatamente
informate sui benefici dell’assunzione del trattamento per il resto della vita hanno
probabilità molto elevate di interrompere le terapie.
Uno studio
randomizzato condotto in Kenya ha riscontrato dei miglioramenti nella ritenzione in
cura di un campione di donne HIV-positive a sei mesi dal parto. Mettendo a
disposizione un pacchetto di interventi come un’educazione alla salute
personalizzata, visite a domicilio e promemoria per gli appuntamenti medici,
andando fisicamente a cercare le pazienti che non si presentavano alle visite
mediche e offrendo un sostegno mirato per aderenza e mantenimento in cura, il
tasso di ritenzione è salito dal 19 al 28%.
Vaccino per l’HPV e carcinoma anale Il vaccino quadrivalente per l’HPV Gardasil non
protegge gli adulti HIV-positivi dall’infezione anale persistente con papillomavirus umano
(HPV) o dallo sviluppo di lesioni intraepiteliali squamose di alto grado (HSIL):
è quanto
emerge da uno studio randomizzato controllato con placebo.
Il carcinoma del canale anale associato a HPV è una delle
neoplasie di origine infettiva più diffuse tra le persone HIV-positive. La
strategia più efficace per prevenire questo tipo di tumori, così come quelli alla
cervice uterina, è vaccinarsi prima di diventare sessualmente attivi o di
contrarre un ceppo di HPV associato allo sviluppo del cancro. Negli Stati
Uniti, il vaccino viene offerto a ragazzi e ragazze in età pre-puberale, ed è
raccomandato per gli uomini che fanno sesso con altri uomini (men who have sex with men, MSM) e per le
persone HIV-positive fino a 26 anni.
Questo studio si proponeva di stabilire se lo stesso
vaccino poteva rivelarsi efficace anche per persone HIV-positive che avessero
superato questa età. È stato perciò selezionato un campione di 575
partecipanti, età media 47 anni, per lo più uomini, il 60% dei quali presentava
già un’infezione con uno o più ceppi HPV causa di cancro coperti dal vaccino
quadrivalente. Sono invece stati esclusi pazienti che avessero già sviluppato
il carcinoma.
Dopo tre anni, non sono state rilevate differenze nei
tassi di HPV o HSIL del canale anale. Gli autori dello studio ipotizzano che la
mancata efficacia del vaccino sia imputabile alla possibile presenza di
infezioni pregresse non individuate dal test HPV DNA anale e al fatto che il
vaccino non è in grado di stimolare un’immunità cellulare che consenta di
sanare le infezioni pregresse.
La vaccinazione delle persone HIV-positive sopra i 26
anni di età per la prevenzione del carcinoma anale resta pertanto non
raccomandata. Tuttavia, dato che il vaccino ha dato prova di prevenire, almeno
in certa misura, la trasmissione dell’HPV per via orale, sarebbe opportuno
condurre ulteriori studi sulle sue potenzialità in materia di prevenzione dei
tumori del cavo orale.
Funzionalità renale e PrEP 
Albert Liu durante la sua presentazione a CROI 2016. Foto di Liz Highleyman, hivandhepatitis.com
In due ampi
studi su persone che assumevano tenofovir/emtricitabina (Truvada) come
profilassi pre-esposizione (PrEP) sono state riscontrate lievi riduzioni della
funzionalità renale, solitamente
associate a dosaggi più alti di tenofovir o a età più avanzata.
Per esempio, nello studio iPrEx OLE si è osservata una
generale diminuzione, seppur lieve, del tasso di smaltimento della creatinina
(un calo del 2,5% del tasso di filtrazione glomerulare stimato nell’arco di 18
mesi): è stata però rilevata un’associazione statisticamente significativa tra
tale diminuzione e la presenza di più elevati livelli di tenofovir o
emtricitabina nei campioni di capelli prelevati dai partecipanti. Coloro che
avevano assunto tutte e sette le dosi settimanali di PrEP, come dimostrato dai
livelli di farmaci riscontrati nei capelli, presentavano tassi di smaltimento
della creatinina inferiori del 5,6%. Il gruppo maggiormente a rischio di
riduzioni clinicamente significative della funzionalità renale è risultato quello
degli ultracinquantenni.
I dati dei due studi, considerati complessivamente,
indicano che il Truvada è sicuro e ben tollerato nella maggior
parte delle persone che lo assumono come PrEP, ma può dare problemi alla
funzionalità renale in un certo numero di casi, pur non elevato, soprattutto se
in presenza di altri fattori di rischio. Questo dato corrobora la raccomandazione dei
CDC (Centers for Disease Control and Prevention) degli Stati Uniti di
monitorare il tasso di smaltimento della creatinina per almeno sei mesi, con
controlli più frequenti e ulteriori esami per chi presenta altri fattori di
rischio come ipertensione e diabete.
La ricerca di una cura: l’agonista del TLR7 Un’equipe
di studiosi impegnati nella ricerca di una cura funzionale per l’HIV ha
presentato nuovi dati sul GS-9620, un recettore toll-like (toll-like receptor, o TLR) o agonista
del TLR7 già sperimentato in un primo studio su animali. Questi recettori espressi dalle cellule
immunitarie sono elementi regolatori della risposta immunitaria innata o
immediata, ma contribuiscono anche all’immunità acquisita, ossia alla capacità
di riconoscere ed eliminare selettivamente determinati virus e agenti patogeni.
L’attivazione del TLR7 determina un’aumentata presentazione dell’antigene e
potenzia l’attività delle cellule natural killer, dei linfociti B (che
producono anticorpi) e dei linfociti T CD4 e CD8.
A undici esemplari di macaca mulatta infettati con un
virus della stessa famiglia dell’HIV e già in soppressione virologica con la
ART tradizionale è stato somministrato questo agonista del TLR7 a basso
dosaggio, dopodiché la ART è stata sospesa: due degli esemplari sono riusciti a
mantenere il virus soppresso senza farmaci per almeno tre mesi.
Si tratta di un dato incoraggiante, che spinge a
perseguire ulteriormente la linea di ricerca volta all’elaborazione di una
terapia in grado di stimolare l’organismo a stanare l’HIV latente nei reservoir
virali delle cellule infettate e a potenziare la risposta immunitaria
virus-specifica negli esseri umani con un’infezione da HIV.
Le potenzialità dell’espansione di trattamento e PrEP 
Traduzione: “Se potenziamo le attuali strategie di prevenzione oggi, in futuro potremo considerevolmente ridurre le nuove infezioni da HIV.” Jonathan Mermin, CDC
Da
un’analisi dell’andamento dell’epidemia da HIV negli Stati Uniti emerge che
aumentare la disponibilità del trattamento efficace dell’HIV inciderebbe molto
di più sul calo delle nuove infezioni dell’ampliamento dei programmi per la
profilassi pre-esposizione (PrEP).
Attualmente, negli Stati Uniti sono diagnosticate l’87%
delle infezioni da HIV stimate; l’80% delle persone con diagnosi di HIV è in
cura e il 36% ha ottenuto l’abbattimento della carica virale. La strategia a
livello nazionale mira a far salire queste percentuali rispettivamente al 90,
85 e 80%. Un obiettivo molto ambizioso, soprattutto per quanto riguarda
l’ultimo dato, quello relativo all’abbattimento della carica virale.
Ogni anno, negli Stati Uniti, circa 50.000 persone
contraggono l’HIV. Se si riuscisse a raggiungere questo obiettivo nei prossimi
quattro anni, si eviterebbero ben 168.000 nuove infezioni.
L’analisi ha preso in considerazione anche l’impatto
della PrEP, assunta dal 40% degli MSM ad alto rischio, dal 10% dei consumatori
di stupefacenti per via iniettiva ad alto rischio e dal 10% degli eterosessuali
ad alto rischio. Nello stesso lasso di tempo, si eviterebbero altre 17.000
infezioni.
Tuttavia, anche se i tassi di diagnosi e trattamento
restassero stabili, l’ampliamento dell’offerta della PrEP sarebbe
potenzialmente in grado, da sola, di prevenire 48.000 nuove infezioni: il suo
impatto è dunque maggiore se più persone HIV-positive non assumono il
trattamento e hanno una carica virale rilevabile.
Un microbicida rettale si dimostra sicuro e accettabile 
Ross Cranston durante la sua presentazione a CROI 2016. Foto di Liz Highleyman, hivandhepatitis.com
Alla
Conferenza sono stati presentati i risultati del primissimo studio di fase II a
sperimentare l’impiego di un microbicida rettale, un gel contenente l’1% di
tenofovir. Gli studi di fase II sono finalizzati a stabilire la
sicurezza di un farmaco, mentre i successivi studi di fase III – generalmente
più ampi – mirano a verificarne l’efficacia.
In quattro diversi paesi sono stati selezionati 195
partecipanti, e ogni gruppo ha sperimentato tre diversi regimi per otto
settimane: l’applicazione quotidiana del gel rettale, l’applicazione del gel
rettale prima e dopo un rapporto sessuale anale da parte del partner recettivo,
e l’assunzione della PrEP per via orale (Truvada).
Sotto il profilo della sicurezza è stato riscontrato che
il tasso di effetti collaterali era identico nei regimi che prevedevano
l’applicazione quotidiana del gel e l’assunzione orale della PrEP, mentre si
abbassava leggermente con l’impiego del gel a ridosso del rapporto. L’aderenza è
stata generalmente elevata, tranne che nel gruppo che applicava quotidianamente
il gel, dove è stata un po’ più bassa.
I partecipanti hanno dichiarato di trovare il gel facile
da assumere quasi quanto la PrEP per via orale, e quelli che hanno sperimentato
l’uso prima e dopo il rapporto sessuale si sono detti disposti a continuare a
farlo. Tuttavia, se veniva loro chiesto di scegliere tra il gel e le pillole,
la maggior parte dichiarava di preferire queste ultime. L’applicazione
quotidiana di gel è risultata meno gradita di quella prima e dopo il rapporto
sessuale.
Uso del preservativo in un trial francese sulla PrEP Un’analisi
sull’uso del preservativo condotta nella fase controllata con placebo dello
studio francese IPERGAY sull’efficacia della PrEP intermittente ha
rilevato tendenze diverse nell’aderenza alla PrEP e nell’uso del preservativo:
- il 54% dei partecipanti hanno assiduamente mantenuto alti
livelli di aderenza alla PrEP ma non usavano altrettanto assiduamente il
preservativo;
- il 23,5% hanno sia mantenuto alti livelli di aderenza
alla PrEP che fatto uso costante del preservativo;
- il 6,5% ha usato assiduamente il preservativo ma assumeva
solo saltuariamente la PrEP;
- il 16% ha assunto solo raramente la PrEP e solo raramente
ha usato il preservativo.
Da ulteriori dati provenienti dalla fase in aperto dello
studio (quando i partecipanti erano consapevoli di assumere la PrEP) emerge che
se il numero dei partner e la frequenza dei rapporti sessuali non variava, l’uso
del preservativo diminuiva invece in modo lieve, ma statisticamente rilevante.
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