| | | Mercoledì 24 febbraio | |
Anello vaginale anti-HIV, l’efficacia preventiva risulta limitata 
Jared Baeten e Annalene Nel durante la loro presentazione a CROI 2016.
Foto di Gus Cairns.
Secondo due studi presentati alla Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni
Opportunistiche (CROI), l’anello vaginale impregnato con un farmaco anti-HIV
sarebbe solo limitatamente efficace nella prevenzione dell’infezione da HIV
nelle donne.
Complessivamente, il rischio di infezione nelle donne che
hanno fatto uso dell’anello si è abbassato solo del 30% circa: un risultato
deludente.
L’efficacia dell’anello, tuttavia, risulta variare in
base all’età. Se l’impatto dell’intervento è stato praticamente nullo nelle
donne tra i 18 e i 21 anni, infatti, il rischio di infezione è invece diminuito
di due terzi in quelle dai 25 anni in su.
Gli studiosi stanno ora cercando di comprendere a cosa
sono dovuti questi risultati e quali implicazioni possono avere per lo sviluppo
e l’impiego futuro di questo strumento preventivo.
Nei due studi, denominati ASPIRE e Ring, sono state
complessivamente arruolate circa 4500 donne HIV-negative nell’Africa
Sub-sahariana. Entrambi avevano un disegno identico. A tutte le partecipanti è
stato distribuito un anello in silicone da inserire nella vagina: metà ne hanno
ricevuto uno contenente l’antiretrovirale dapivirina, l’altra metà un placebo.
Tra le partecipanti ad ASPIRE si sono verificate 168
nuove infezioni da HIV, di cui 71 nelle donne che usavano l’anello impregnato
di dapivirina e 97 in quelle che invece avevano ricevuto il placebo.
L’efficacia preventiva dello strumento è quindi pari soltanto al 27%, un
risultato deludente per gli autori dello studio.
Un dato interessante resta la diversa efficacia
dimostrata dall’intervento a seconda dell’età delle partecipanti: pari a zero
nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 21 anni, ma in progressivo aumento nelle
fasce successive, fino a toccare il 61% nelle ultra-venticinquenni.

Andrew Loxley, per gentile concessione dell’International Partnership
for Microbicides
I primi risultati provenienti dallo studio Ring mostrano
un’efficacia complessiva del 31% e lo stesso tipo di rapporto tra età ed
efficacia.
Secondo gli studiosi, questi deludenti risultati
potrebbero essere legati alla debolezza intrinseca come strumento preventivo di
questi anelli, che secondo le stime sarebbero in grado di prevenire al massimo
il 70% delle infezioni. Si può anche ipotizzare che la bassa efficacia sia
imputabile a un uso incostante da parte delle partecipanti. Quanto
all’efficacia zero riscontrata nel gruppo delle più giovani, invece, è
possibile che sia dovuta alla maggiore vulnerabilità all’infezione da HIV in
questa fascia d’età.
I ricercatori si dicono tuttavia ancora convinti che
l’anello possa ancora dimostrarsi un promettente strumento preventivo, e sono
in programma ulteriori studi in merito.
Stati Uniti, forti disparità nel rischio di diagnosi HIV nel corso della vita 
Kristen Hess durante la sua presentazione a CROI 2016. Foto di Liz Highleyman,
hivandhepatitis.com
Negli Stati Uniti,
il rischio di ricevere una diagnosi di HIV nel corso della vita è diminuito
nello scorso decennio, ma varia considerevolmente da un sottogruppo di
popolazione all’altro. Se si confermerà la
tendenza attuale, ben il 50% dei maschi neri omo- e bisessuali rischia di
contrarre l’infezione, prima o poi.
I dati, basati sui tassi di diagnosi e mortalità relativi
al periodo 2009-13, provengono dai Centers for Disease Control and Prevention
(CDC), l’autorevole ente per il controllo e la prevenzione delle malattie degli
Stati Uniti. Complessivamente, il rischio di ricevere una diagnosi di
positività all’HIV nel corso della vita è risultato di 1 su 99.
Tuttavia il rischio era considerevolmente più elevato nei
neri, sia uomini (1 su 20) che donne (1 su 48), rispetto ad altri gruppi
etnici, per esempio nei bianchi (1 su 132 per gli uomini, 1 su 880 per le
donne). Sono stati riscontrati tassi più alti anche per ispanici e popolazioni
indigene delle isole del Pacifico.
L’analisi ha confermato che i maschi che fanno sesso con
maschi sono il gruppo più duramente colpito dall’epidemia di HIV: nel gruppo
dei maschi omo- e bisessuali, infatti, il rischio di contrarre l’infezione sale
a 1 su 2 tra i neri, 1 su 4 tra gli ispanici e 1 su 11 tra i bianchi.
Nel gruppo dei consumatori di sostanze stupefacenti per
via iniettiva, rischiano di contrarre il virus 1 su 36 uomini e 1 su 23 donne:
in questo sottogruppo, dunque, il rischio risulta più elevato per le donne. Ma
anche qui i tassi sono più alti per la popolazione nera.
Secondo i rappresentanti dei CDC, questo modo di
presentare i dati può essere particolarmente efficace per sensibilizzare la
popolazione sul rischio di contrarre l’HIV. Le disparità evidenziate sono
inoltre allarmanti, ed è dunque necessario agire al più presto.
Nuovi farmaci e strategie di trattamento 
David Margolis durante la sua presentazione a CROI 2016. Foto di Liz
Highleyman, hivandhepatitis.com.
Una combinazione di due farmaci anti-HIV iniettabili a lunga durata
d’azione ha dato prova di un’efficacia virologica paragonabile a quella della
terapia antiretrovirale tradizionale, secondo quanto rivelano nuovi dati.
Il trattamento per l’HIV va assunto a vita, e
la ricerca sta cercando di mettere a punto antiretrovirali a lunga durata
d’azione che non richiedano l’assunzione quotidiana.
Per questo studio sono stati arruolati 309
pazienti che intraprendevano per la prima volta la terapia: a tutti è stato
somministrato cabotegravir più abacavir/lamivudina.
I partecipanti che riuscivano ad abbattere la
carica virale a livelli non rilevabili sono stati poi randomizzati per ricevere
delle iniezioni di cabotegravir e rilpivirina ogni
quattro/otto settimane, oppure per proseguire con il tradizionale regime
giornaliero con assunzione per via orale.
A 32 settimane dalla randomizzazione, i tassi di
soppressione virale hanno raggiunto il 94/95% nel braccio che riceveva le
iniezioni, contro il 91% per chi invece aveva mantenuto la terapia orale.
L’effetto collaterale più comune del nuovo trattamento è
risultato una reazione locale nel sito di iniezione; 19 pazienti hanno inoltre
lamentato sintomi simil-influenzali. Tra i partecipanti che hanno ricevuto il
preparato iniettabile è invece risultato maggiore il grado di soddisfazione per
il nuovo trattamento (90%, contro il 70% nel gruppo che assumeva la terapia
orale).
Il follow-up continuerà fino alla 96° settimana, ed è inoltre
in programma un ampio studio di fase 3.

John Mascola durante la sua presentazione a CROI 2016. Foto di Liz
Highleyman, hivandhepatitis.com Le formulazioni
iniettabili a base di anticorpi potrebbero rappresentare la nuova frontiera
della prevenzione e del trattamento dell’HIV. Al CROI
sono stati presentati studi che indagano l’impiego di terapie iniettabili a
base di anticorpi nella profilassi pre-esposizione (PrEP) e come forma di
trattamento. In questo ambito la ricerca sta muovendo i suoi primi passi e i
risultati sono finora promettenti: tuttavia resta ancora molta strada da fare
prima che la prevenzione e la terapia a base di anticorpi possa diventare una
realtà.
Tenofovir e rischio di fratture ossee 
Alvaro Borges durante la sua presentazione a CROI 2016. Image credit:
www.croiwebcasts.org.
Dai dati dell’ampio studio di coorte EuroSIDA emerge che il trattamento con
tenofovir disoproxil fumarato (Viread) aumenterebbe il rischio di
fratture ossee.
Sia l’infezione da HIV che il trattamento con certi
farmaci antiretrovirali – tra cui il tenofovir (contenuto nel Truvada e in diverse altre formulazioni
a dosaggio fisso come l’Atripla) – possa
causare una diminuzione della densità
minerale ossea, aumentando così il
rischio di fratture. In effetti, anche uno studio caso-controllo condotto in Danimarca aveva confermato che l’HIV risultava associato a un rischio triplicato di
fratture ossee. Ma il rapporto tra antiretrovirali e fratture restava oggetto
di dibattito.
Per questo, i ricercatori di EuroSIDA hanno disegnato uno
studio su un campione di circa 12.000 persone che hanno iniziato la terapia
antiretrovirale dopo il 2004, raccogliendo dati sull’incidenza delle fratture e
conducendo una serie di analisi per determinare i fattori di rischio, considerando
anche l’impiego dei singoli antiretrovirali.
Nel corso dello studio si sono verificate 618 fratture
(incidenza 7 per 1000 persone all’anno). I siti più comuni sono risultati
braccia, gambe e costole. I fattori di rischio comprendevano età avanzata, un
basso indice di massa corporea (BMI), il consumo di sostanze stupefacenti per
via iniettiva, una bassa conta
dei CD4 all’inizio del trattamento e la
coinfezione con il
virus dell’epatite C.
Effettivamente i tassi di frattura nei pazienti che erano
stati trattati con tenofovir o che lo stavano assumendo al momento sono
risultati più elevati in confronto a quelli che assumevano altri
antiretrovirali. Anche tenuto conto degli altri fattori di rischio, aver precedentemente
assunto il tenofovir aumentava il rischio di fratture del 40%; l’aumento
risultava invece del 25% per coloro che stavano ancora assumendo il farmaco.
Non è invece emersa alcuna associazione tra rischio di
fratture e assunzione prolungata di tenofovir, il che conferma precedenti
osservazioni secondo cui la perdita di densità ossea avverrebbe per lo più nei
primi tempi dall’inizio della terapia.
Nessun altro antiretrovirale è risultato associato a un
aumentato rischio di fratture ossee.
Una singola dose di acido zoledronico migliora la densità ossea 
Ighovwerha Ofotokun durante la sua presentazione a CROI 2016. Image
credit: www.croiwebcasts.org.
Un piccolo studio condotto negli Stati Uniti ha mostrato che una singola
somministrazione di acido zoledronico può limitare la perdita di densità ossea
durante il primo anno di terapia antiretrovirale.
L’acido zoledronico è una sostanza autorizzata per il
trattamento del cancro alle ossa e dell’osteoporosi in pazienti con aumentato
rischio di fratture, somministrata per infusione una volta all’anno. Il farmaco
rallenta la perdita di calcio dalle ossa, riducendo così il rischio di
fratture.
La perdita di massa ossea associata all’assunzione di
antiretrovirali si verifica per lo più durante il primo anno di trattamento. I
ricercatori hanno perciò voluto verificare se il trattamento con acido
zoledronico a inizio terapia fosse in grado di limitare la perdita di densità
ossea durante le prime 48 settimane di trattamento antiretrovirale.
Per lo studio sono stati arruolati 63 pazienti: a tutti è
stato somministrato atazanavir con tenofovir/emtricitabina
(i principi contenuti nel Truvada), e poi sono stati randomizzati per ricevere l’acido
zoledronico oppure un placebo, monitorando a intervalli regolari il turnover
osseo e la densità.
Il trattamento con acido zoledronico non ha tardato a
mostrare i suoi benefici: già alla 12° settimana il rischio di perdita ossea
risultava ridotto del 74% e alla 48° ancora del 56%.
I pazienti che hanno assunto l’acido zoledronico hanno
mostrato un aumento di densità ossea in siti particolarmente suscettibili alle
fratture. Di contro, nel braccio che ha ricevuto il placebo è stata osservata
una diminuzione della massa ossea. Il trattamento non è risultato associato a
effetti collaterali gravi, né ha avuto alcun tipo di impatto sull’efficacia
della terapia antiretrovirale.
Gli autori dello studio auspicano dunque che vengano condotti
studi più ampi a conferma dei loro risultati.
Perdita di densità ossea e PrEP 
Robert Grant durante la sua presentazione a CROI 2016. Image credit:
www.croiwebcasts.org
La perdita di densità minerale ossea che
si verifica durante la profilassi pre-esposizione (PrEP) viene recuperata
nell’arco di sei mesi dopo l’interruzione del trattamento, stando ai risultati
di un nuovo studio.
I ricercatori di un ampio studio denominato iPrEx hanno
monitorato la densità minerale ossea di circa 500 pazienti uomini che hanno
assunto una PrEP a base di
tenofovir/emtricitabina.
Il tenofovir è l’antiretrovirale più associato alla perdita di massa ossea,
specialmente nel corso del primo anno di terapia. Alcuni ricercatori temono
anche che una perdita di densità ossea associata al tenofovir nella prima età
adulta possa aumentare il rischio di gravi problemi all’apparato scheletrico più
avanti negli anni.

Slide della presentazione di Robert Grant
a CROI 2016. Traduzione: "Questo lavoro è stato possibile grazie ai
partecipanti e alle loro comunità, che hanno creduto nella ricerca per
migliorare la loro vita." I partecipanti allo studio hanno assunto la PrEP o un
placebo per 1,2 anni in media, e durante questo lasso di tempo si sono
sottoposti a intervalli regolari all'esame di densitometria ossea con metodica
DEXA; hanno poi continuato il monitoraggio per un altro anno e mezzo dopo aver
interrotto l’assunzione della PrEP o del placebo.
Nel corso del trattamento, nei partecipanti che
presentavano livelli ematici di tenofovir sufficienti a prevenire l’infezione
da HIV si sono osservate diminuzioni di massa ossea nell’anca (1%) e nella
colonna vertebrale (1,8%). A sei mesi dall’interruzione del trattamento, la
densità ossea nella colonna vertebrale era tornata a livelli paragonabili a
quella dei pazienti del gruppo che aveva assunto il placebo. Per la perdita di
massa ossea nell’anca i tempi di recupero sono stati più lunghi, ma a 18 mesi
dall’interruzione del trattamento si osservavano comunque livelli paragonabili
a quelli del gruppo del placebo. Il recupero è risultato particolarmente veloce
nei pazienti al di sotto dei 25 anni.
Diminuisce la trasmissione materno fetale in Malawi grazie all’Opzione B+ I dati relativi
alla trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV in Malawi presentati
alla Conferenza mostrano i progressi
straordinari compiuti nonostante la limitatezza delle risorse in uno dei più
poveri paesi al mondo.
In un campione di 2641 madri HIV-positive con bambini di
età compresa tra le 4 e le 12 settimane la copertura della terapia
antiretrovirale (ART) durante la gravidanza è stata eccezionalmente alta
(94,5%). Il tasso complessivo di trasmissione del virus da madre a figlio si è
attestato sul 4,1%, ma con significative differenze in base a quando era stata
iniziata la terapia: 1,4% nelle donne che l’avevano iniziata prima di restare
incinte; 4,1% in quelle che la iniziavano nel primo o secondo trimestre di
gravidanza; 4,3% in quelle che la iniziavano invece nel terzo trimestre; 13,3% in
quelle che la iniziavano solo dopo il parto; e 20,3% in quelle che non
l’assumevano affatto.
Il tasso di trasmissione dell’1,4% nelle donne che
avevano già iniziato ad assumere antiretrovirali prima di restare incinte (meno
della metà del campione analizzato) è un risultato all’altezza di quelli
osservati nei paesi sviluppati. L’Opzione B+ incoraggia le donne a continuare
ad assumere la ART anche dopo il parto, per proteggere la salute della madre e
di eventuali altri figli in caso di altre gravidanze.
I dati presentati riguardano bambini dalle 4 alle 12
settimane di età, quindi testimoniano soltanto eventuali eventi di trasmissione
avvenuti a poca distanza dalla nascita. Starà al follow-up verificare se l’intervento
avrà la stessa efficacia nel prevenire la trasmissione durante l’allattamento e
se si riuscirà a mantenere in cura queste donne nel lungo termine.
Trattamento precoce e rischio di malattia cardiovascolare 
Jason Baker durante la sua presentazione a CROI 2016. Image credit:
www.croiwebcasts.org
Iniziare la terapia
antiretrovirale (ART) con una più elevata conta dei CD4 non ha alcun
significativo impatto su un importante segnale d’allarme precoce per le
patologie cardiovascolari.
Numerosi studi hanno dimostrato che l’infezione da HIV
può aumentare il rischio di malattia cardiovascolare, ma non è
ancora chiaro se tale rischio diminuisca quando viene iniziata tempestivamente
la terapia antiretrovirale.
Lo studio START si
proponeva proprio di stabilire quale fosse il momento migliore per iniziare la
ART – se precocemente, quando la conta dei CD4 non fosse
ancora scesa sotto 500, oppure soltanto quando la conta fosse scesa sotto 350.
Un sotto-studio di START si è occupato di monitorare
l’elasticità della parete arteriosa, che – quando viene meno – rappresenta un
importante segnale d’allarme per i problemi cardiovascolari: lo scopo era
verificare se la terapia precoce portasse benefici in termini di rischio
cardiovascolare.
Lo studio ha preso in considerazione in totale 322
pazienti, e il follow-up è proseguito per 36 mesi. In nessuno dei due gruppi
sono state rilevate significative alterazioni nell’elasticità della parete
arteriosa.
“Se la ART porta effettivamente dei benefici sotto il
profilo del rischio di malattia cardiovascolare, dobbiamo concludere che sia
coinvolto un meccanismo biologico che non si riflette nell’elasticità
arteriosa”, ha commentato Jason Baker dell’University of Minnesota, presentando i risultati dello studio.
| | | NAM's coverage of CROI 2016 has been made possible thanks to support from Gilead Sciences and ViiV Healthcare. | |
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