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Venerdì 27 luglio 2012

Contenuti

Tra quanto una cura per l’HIV?

Gli esperti alla conferenza stampa sulla ricerca di una cura per l’HIV.  © IAS/Deborah W. Campos - Commercialimage.net

Alla Conferenza Internazionale sull’AIDS, questa settimana, sono stati presentati i risultati delle più recenti ricerche in materia di cura dell’HIV.

Gli esperti si sono dati appuntamento anche per un workshop precedente alla Conferenza dedicato alla ricerca di una cura, dove hanno presentato la strategia scientifica globale Towards an HIV Cure (‘HIV, verso una cura’).

Diverse sono le strade battute dai ricercatori per arrivare a una possibile cura dell’HIV. Tra queste:

  • stanare e distruggere il virus latente nei reservoir anatomici;
  • mettere a punto trattamenti con staminali (come quello che ha guarito il cosiddetto ‘paziente di Berlino’);
  • somministrare il trattamento HIV immediatamente dopo l’infezione (trattamento precoce), una strategia che però è applicabile solo a una piccola percentuale degli infettati.

È probabile che per un processo di cura efficace sarà necessaria una combinazione di questi approcci.

I promettenti risultati ottenuti da alcuni studi in merito sollevano questioni di natura etica, in quanto per verificare se si è ottenuta una cura funzionale si renderebbe necessario sospendere il trattamento in pazienti che lo stanno assumendo con successo.  Per questo è stato istituito un apposito gruppo di lavoro sull’etica.

Dice Steven Deeks, co-chair con Francois Barré-Sinoussi del gruppo di lavoro dell’IAS sulla cura per l’HIV: "Gli ostacoli per giungere a una cura sono molto più grandi di quelli affrontati per la terapia antiretrovirale [negli ultimi anni ‘80]… A meno che non capiti qualche grosso colpo di fortuna, ci vorrà ancora molto più di un decennio.”

“La ricerca in questo campo è molto dinamica”, dice Sharon Lewin della Monash University di Melbourne. "Certo, attualmente non c’è ancora una cura, ma iniziamo ad avere le idee chiare su cosa bisogna fare."

Un anno di terapia preventiva riduce il rischio di tubercolosi nei pazienti in trattamento HIV

Foto: WHO/TBP/Gary Hampton

Dodici mesi di trattamento preventivo con isoniazide (IPT) hanno notevolmente ridotto l’incidenza delle nuove infezioni da tubercolosi in pazienti sieropositivi che assumevano anche il trattamento ARV: è quanto emerge da un ampio studio randomizzato condotto a Khayelitsha, in Sudafrica.

“Nel gruppo trattato con isoniazide (INH) c’è stata una riduzione del 37%  di casi incidenti di tubercolosi, rispetto al gruppo che assumeva solo la terapia antiretrovirale”, ha detto il dott. Molebogeng Xheedhe Rangaka dell’Università di Cape Town, presentando i risultati dello studio.

Dato che questo contributo è stato presentato più tardi alla Conferenza, il resoconto completo sarà pubblicato su aidsmap domani.

L’HIV e la tubercolosi

Altre notizie sul fronte tubercolosi. Uno studio condotto in Botswana dimostra che l’infezione con HIV non incide sui tempi di cura della tubercolosi multifarmaco-resistente (MDR-TB).

La tubercolosi è una delle principali cause di malattia grave e di morte tra le persone sieropositive.

Si sono sviluppati ceppi di tubercolosi resistenti ai farmaci chiave. Il trattamento della MDR-TB è più complesso di quello per la tubercolosi sensibile ai farmaci, e richiede anche più tempo.

Stando ai risultati degli ultimi studi in materia, il trattamento della MDR-TB ha gli stessi tassi di successo nelle persone sieropositive che in quelle sieronegative.

Inoltre, il lasso di tempo necessario perché il trattamento faccia effetto non ha mostrato variazioni legate allo stato sierologico.

Il mantenimento in terapia anti-HIV

Slides della presentazione della dott. Rachel Baggaley dell’OMS.

Ci sono più probabilità che le persone sieropositive restino in terapia se possono contare sul sostegno della comunità, come mostra uno studio svolto in Sudafrica.

Nell’Africa meridionale, meno di un terzo di coloro che iniziano il trattamento HIV continua poi a curarsi. È un dato molto preoccupante, perché significa che la maggior parte delle persone sieropositive sono private dei benefici che potrebbero trarre da trattamento e cure specialistiche. Inoltre, un elevato tasso di abbandono della terapia compromette gravemente l’uso del trattamento HIV come prevenzione.

Una portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha presentato i dati di una ricerca svolta in oltre 20 paesi sui motivi per cui i pazienti a un certo punto abbandonino il percorso di cura (che, nella sua totalità, va dall’effettuazione del primo test all’assunzione di trattamento efficace). Tra questi, i più rilevanti sono: paura dello stigma, rifiuto di accettare la sieropositività, ansia, mancata informazione sulle o mancato accesso alle cure disponibili, strutture sanitarie carenti o problemi negli spostamenti.

Uno studio proveniente dal Sudafrica, però, dimostra che ci sono maggiori probabilità che le persone sieropositive restino in terapia se possono contare sul sostegno della comunità per mantenere l’aderenza.

Nel 2004 è stata introdotta una nuova figura professionale, il ‘patient advocate’ (‘sostenitore del malato’), con il compito di aiutare le persone sieropositive a mantenere l’aderenza e fornire loro counseling e sostegno psicosociale.

Solo il 6% delle persone assistite da un ‘patient advocate’ hanno abbandonato la terapia, contro il 10% di coloro che non hanno ricevuto questo tipo di sostegno.

Studi separati hanno dimostrato che la ricerca attiva di contatto con bambini che iniziano il trattamento ARV può contribuire a ridurre i tassi di abbandono.

Dopo l’introduzione di un sistema per tenere sotto controllo e rintracciare attivamente i bambini che non si presentavano per il trattamento, i tassi di perdita al follow-up sono calati dal 22,7 all’8,5%.

Nel rapporto dell’OMS si raccomanda di coinvolgere attivamente gli operatori sanitari non specializzati per aiutare i pazienti nel delicato passaggio da una fase di cura all’altra, combattendo così l’abbandono della terapia.

C’è stata inoltre una sessione separata della Conferenza specificamente dedicata al ruolo della tecnologia mobile nel mantenimento in terapia, con particolare attenzione alle donne che partecipano ai programmi per la prevenzione della trasmissione materno-fetale.

In partnership with UNICEF

Il mantenimento in terapia anti-HIV per i bambini

Rene Ekpini dell’UNICEF. © IAS/Steve Shapiro - Commercialimage.net

Restando in tema di mantenimento in terapia, alla Conferenza di Washington è stato detto che i tre quarti dei bambini che avrebbero bisogno di trattamento per l’HIV non lo stanno ricevendo, il che è inaccettabile.

Tuttavia, è una situazione a cui è possibile porre rimedio, come dimostra una serie di programmi sperimentati in varie parti del mondo.

Uno, attuato in Malawi, prevede la fornitura di trattamento anti-HIV a vita a tutte le donne in gravidanza, a prescindere dalla loro conta dei CD4.

Un altro intervento in Zimbabwe ha permesso di aumentare il numero di diagnosi HIV nei bambini.

Hanno dimostrato di migliorare il mantenimento in terapia dei bambini anche una serie di interventi pratici, in cui spesso gioca un ruolo importantissimo la comunità locale, come ad esempio:

  • il ricorso a volontari locali per accompagnare i bambini alle visite;
  • il ricorso al ‘patient advocate’;
  • la distribuzione di voucher per gli spostamenti.

In partnership with UNICEF

L’accesso al trattamento

Partecipanti della manifestazione Say it loud! – Diciamolo più forte! a Washington. Foto di Greta Hughson/aidsmap.com

Alla Conferenza di Washington si è parlato anche di come i brevetti e le leggi sui diritti di proprietà intellettuale stiano ancora ostacolando l’accesso alla terapia antiretrovirale nei paesi a medio e basso reddito.

Nei paesi poveri è stato possibile introdurre la terapia antiretrovirale in parte grazie allo sviluppo di economici equivalenti generici di tutta una serie di fondamentali  farmaci anti-HIV.

Tuttavia, le attuali leggi sui diritti di proprietà intellettuale fanno sì che i farmaci per il trattamento di seconda e terza linea abbiano ancora costi proibitivi. Alla Conferenza è stata discussa anche la questione dei costi stratosferici del trattamento in alcuni paesi a medio reddito.

Durante vari interventi è stata espressa la raccomandazione di fare il possibile perché nella domanda di brevetto ci si assicuri che venga data priorità innanzitutto all’accesso al trattamento.

La criminalizzazione dell’HIV

Edwin J Bernard dell’HIV Justice Network. © IAS/Ryan Rayburn - Commercialimage.net

Una sessione della Conferenza Internazionale sull’AIDS è stata specificamente dedicata alle draconiane leggi sulla trasmissione e l’esposizione all’HIV.

I delegati hanno potuto sentire come spesso i tribunali escludano prove dell’ottima prognosi dei pazienti in terapia antiretrovirale e dell’impatto del trattamento sul rischio di trasmissione.

Molte sono le persone finite in carcere per aver avuto rapporti sessuali senza aver rivelato al partner la propria sieropositività, perfino se la trasmissione del virus non si era verificata. Alcune di esse sono state perseguite anche se il rapporto sessuale era di un tipo senza effettivo rischio di trasmissione.

Le notizie incoraggianti, è stato detto durante la sessione, sono che facendo pressioni si può arrivare a cambiare le leggi.

Per esempio, in Danimarca le severissime leggi sull’HIV sono state sospese a seguito della presentazione di prove scientifiche sull’aspettativa di vita delle persone in trattamento antiretrovirale efficace e sull’impatto del trattamento come prevenzione.

L’HIV e l’epatite C

Vincent Lo Re dell’Università della Pennsylvania. ©Liz Highleyman / hivandhepatitis.com

I pazienti con coinfezione da HIV ed epatite C continuano ad essere più a rischio di sviluppare gravi malattie epatiche rispetto a quelli monoinfetti con epatite C.

Degli studi condotti negli Stati Uniti hanno analizzato l’incidenza delle malattie  al fegato e dei decessi ad esse correlati in pazienti co-infetti, raffrontandoli con pazienti affetti dalla sola epatite C.

Un dato importante è che i partecipanti coinfetti assumevano il trattamento per l’HIV, che ha già dimostrato di rallentare la progressione della malattia epatica.

I pazienti co-infetti presentavano un rischio circa due volte maggiore di sviluppare una  malattia epatica scompensata, e il 69% di probabilità in più di progredire in epatocarcinoma.

Con livelli non rilevabili di carica virale HIV, il rischio di sviluppare un tumore epatico diminuiva, ma anche in presenza di soppressione gli outcome restavano comunque peggiori nei pazienti coinfetti.

Contraccettivi ormonali e rischio HIV

Alla Conferenza Internazionale sull’AIDS sono state presentate evidenze scientifiche contraddittorie sull’impiego dei contraccettivi ormonali e il loro possibile impatto sul rischio di infezione con l’HIV.

Stando a uno studio pubblicato l’anno scorso, le donne che assumevano contraccettivi ormonali presentavano un maggior rischio di contrarre il virus, e anche di trasmetterlo.

I risultati di questo studio sono stati nuovamente analizzati, confermando l’associazione tra contraccettivi ormonali e aumentato rischio di infezione da HIV.

L’associazione tra contraccezione ormonale e rischio HIV restava inoltre significativa tenendo conto dei tassi di sesso non protetto.

Una meta-analisi di studi che analizzavano il rischio di contrarre l’HIV in rapporto all’impiego di forme di contraccezione ormonale e non ormonale non ha però condotto a prove scientifiche definitive che la contraccezione ormonale aumenti le probabilità di infettarsi con il virus.

È stato sottolineato che è importante, per le donne, avere accesso a contraccettivi affidabili, e che il rischio HIV deve essere messo in rapporto alla disponibilità di una contraccezione efficace.

Il Global Village

Foto di Greta Hughson/aidsmap.com

La 19a Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2012) non è soltanto la somma delle sue presentazioni e dei suoi poster. Mentre si svolgevano le sessioni della Conferenza, anche i padiglioni espositivi e il Global Village pullulavano di attività.

Segui Greta Hughson di aidsmap in un tour del Global Village di AIDS 2012.

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