Gary Blick durante la sua presentazione al CROI 2014. Foto di Liz Highleyman, hivandhepatitis.com.
Si tratta di una tecnica che si serve di un enzima chiamato nucleasi a dita di zinco (zinc finger nuclease, o ZNF) per inattivare il gene dei linfociti CD4 responsabile dell’espressione del co-recettore CCR5, a cui si aggancia la maggior parte dei ceppi di HIV per infettare le cellule.
La procedura prevede di raccogliere campioni di linfociti CD4 da pazienti sieropositivi, per poi modificarli in laboratorio con le nucleasi a dita di zinco e farli proliferare in coltura. Le cellule modificate, denominate SB-728-T, vengono infine re-infuse nel paziente da cui provengono: l’HIV continua a distruggere i linfociti non modificati, ma queste cellule resistenti all’infezione sono immuni e sopravvivono.
Uno studio presentato al CROI ha valutato l’impatto di un trattamento preliminare con un agente chemioterapico, la ciclofosfamide, prima della re-infusione delle cellule geneticamente modificate.
I 12 pazienti che vi hanno preso parte assumevano tutti la ART all’inizio dello studio, e tutti presentavano elevate conte di CD4 e carica virale non rilevabile.
A ognuno dei partecipanti è stata inoculata ciclofosfamide per via endovenosa, in dosi di 200, 500 o 1000mg/m2 somministrate da uno a tre giorni prima di ogni infusione di cellule modificate. Sei settimane dopo, i pazienti hanno sospeso l’assunzione di antiretrovirali.
La ciclofosfamide si è dimostrata generalmente sicura e ben tollerata. Sono aumentate sia la conta complessiva dei CD4 che le copie di linfociti modificati, a seconda del dosaggio somministrato; l’aumento più consistente si è osservato nel gruppo che assumeva 1000mg. I pazienti che hanno ricevuto il farmaco a dosaggio più alto sono anche quelli che hanno registrato maggiori diminuzioni della carica virale HIV durante la sospensione della ART.
Gli autori hanno spiegato che con il dosaggio a 1000mg ci si avvicinerebbe alla soglia per una cura funzionale.
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